ARTICOLO
07.12.2017
Se dei lavoratori poco importa..
Di 2BHappy
Da un recente sondaggio della Gallup, il 65% dei lavoratori americani (ma possiamo ragionevolmente pensare che la situazione lavorativa italiana non sia molto diversa) afferma di non sentirsi apprezzato a lavoro, luogo in cui molti di noi trascorrono la maggior parte delle ore di veglia. Non sentirsi apprezzati è, inoltre, il principale motivo per cui i dipendenti lasciano le aziende. Ma, in tempo di crisi del mercato occupazionale, come stiamo vivendo ormai da anni in Italia, diciamo che questo sarebbe il comportamento desiderato dai lavoratori, cioè andarsene e cambiare – spesso anche radicalmente vita. Invece tanti son “costretti” a rimanere, a star zitti e sopportare, nonostante la mancanza di apprezzamento e ambienti di lavoro opprimenti, conflittuali.. perché come si fa a mollare un lavoro quando c’è la crisi? E in effetti sembra quasi che a lavoro sia più facile star zitti, piuttosto che dire qualcosa di carino o mostrare riconoscimento e apprezzamento per qualcuno. Qualcuno addirittura direbbe: “magari stessero almeno zitti”, riferendosi a capiufficio o dirigenti che invece “sbraitano”, quando non minacciano, nel continuo chiedere di dare e dare e dare sempre qualcosa in più – extra performance, extra tempo, extra impegno, extra creatività, extra energie – “perché c’è la crisi” e, o accetti questo continuo overload (è così che lo chiamano i manager il sovraccarico di lavoro – perché detto come andrebbe detto, in italiano, anche loro un po’ l’avvertono l’insensatezza e i rischi della parola!) oppure “prego, fuori c’è la fila per questo posto”. Tra l’altro, se si esagerasse con le parole carine, si correrebbe il rischio della farsa, di imbattersi cioè in comportamenti e ringraziamenti non sinceri. Quindi perché rischiare? Dopo tutto, siamo già pagati per svolgere il nostro compito, anzi, dobbiamo essere grati di avere un lavoro, giusto? Questo dovrebbe bastare e avanzare come ringraziamento, o no?
No. La verità è che la maggior parte di noi va a lavorare tutti i giorni per qualcosa di più dello stipendio. Timbriamo ancora il cartellino per l’appagamento di bisogni di autostima, realizzazione, per l’interazione sociale e anche per dare l’esempio ai nostri figli – ma l’elenco chiaramente potrebbe continuare. Il denaro, lo stipendio, è ciò che ci fa varcare la porta dell’ufficio, ma è il sentirsi apprezzati, utili e riconosciuti come Persone, è ciò che ci tiene lì. Che tu sia un dipendente, un collega, un cliente, un fornitore, o anche il capo, quello che tutti vogliamo è essere apprezzati.
Oltre 40 studi scientifici e ricerche di psicologia positiva, neuroscienze etc.. hanno dimostrato i benefici della gratitudine. La gratitudine migliora la salute, le relazioni, ha impatti positivi sulla percezione e il controllo delle emozioni, sulla personalità e sulla possibilità di far carriera. Da quando ci siamo date l’ambiziosa missione di portare la felicità in azienda, abbiamo raccolto prove, distillato numeri, sviluppato programmi basati sulle scienze, al fine di “convincere” i decisori che la felicità – di cui la gratitudine è un acceleratore potentissimo – conviene, prima di tutto alle aziende. Perché preoccuparsi della felicità, promuovendo una cultura della gratitudine, aumenta la produttività del 31%, migliora le vendite del 37%, aiuta a preservare il “morale” durante i periodi di stressdovuti a ridimensionamenti, cali di volumi, vendite etc, cambi nella gestione e soprattutto serve per aumentare la fedeltà dei dipendenti. Problema quest’ultimo che oggi forse non percepiamo come priorità (per tornare al tema della crisi e al “ricatto” che opera subdolamente la necessità di mantenere il posto di lavoro), ma esprime tutta la miopia di una classe dirigente che non sa guardare avanti, crescere e trasformarsi. Cosa accadrà, infatti, quando la crisi finirà? Ci ritroveremo tutti a sperare in fondo al cuore che non finisca per non assistere all’esodo di massa? Cosa accade già oggi quando i migliori, in qualche modo, se ne vanno, perché essendo bravi e talentuosi hanno le risorse per reinventarsi e non accettare i ricatti? Chi resterà nelle nostre aziende e quali energie di creatività e innovazione (di cui paradossalmente abbiamo estremo ed urgente bisognoper uscire da questa crisi epocale) possiamo aspettarci di tirar fuori da persone che abbiamo logorato nella testa, nel fisico (basta guardare i dati sulle correlazioni evidenti che lo stress da lavoro ha con l’assenteismo, le malattie, gli infortuni e ovviamente i cali di produttività), che abbiamo spremuto fino all’ultimo minuto della loro giornata e a cui non abbiamo neanche mai saputo dire “grazie”?
E ci fanno sorridere, di un sorriso amaro però, le risposte “difensive” di alcune aziende a cui proponiamo di cambiare rotta e investire davvero sulle persone e la loro felicità per raggiungere il successo (fortunatamente ce ne sono anche altre che hanno davvero a cuore le persone e spesso son quelle che proprio non ti aspetti possano avvicinarsi a tali temi). Perché nonostante le ricerche, le evidenze, i dati, i numeri, la scienza inconfutabile.. stessa tipologia di azienda (per non fare nomi, grandi multinazionali – spesso farmaceutiche, dunque per tradizione, cultura, mentalità tra le più progressiste e innovatrici in quanto a pratiche manageriali e di sviluppo delle persone), le stesse due tipologie di risposta: “siete troppo avanti” (tradotto: questa storia della felicità è una sciocchezza, troppo aleatoria, utopia..), oppure, udite udite, “siete troppo poco”(Tradotto: non mi posso permettere di farmi ridere dietro. Se però mi portate il Dalai Lama o uno famoso va bene, così se qualcuno storce il naso posso dire che gli ho portato il meglio). Stesso progetto, prodotto, due percezioni opposte. Qual è la verità? Per esperienza sappiamo che in genere sta nel mezzo.. e quindi, se da una parte c’è una certa resistenza, nonostante le evidenze teoriche ed empiriche (che forse a livello razionale si comprendono, ma si ha paura degli effetti di questo cambio radicale di paradigma che la felicità comporta per le aziende), d’altra parte forse noi dovremmo smettere di sorridere e iniziare a dire che ci occupiamo di Infelicità….Si, perchè anche questo abbiamo capito: la felicità sta un pò sulle scatole e genera l’effetto opposto nella media delle persone. Nella loro testolina scatta spesso il pensiero: ma chi sei tu per dire a me come faccio ad essere felice, e poi tutto sommato non è che a star male si stia poi così tanto “male”.
E mentre da parte nostra facciamo autocritica e pensiamo a come migliorarci per sbloccare l’inerzia delle aziende, il pensiero va a quella famosissima scena della pernacchia di Alberto Sordi ne I Vitelloni, perché in questo frattempo, chi continua a rimetterci sono solo le Persone.
Dopo il video della pernacchia, che rivolgiamo anche a noi stesse chiaramente, un discroso brillante, chiaro e alla portata di tutti quelli che vogliono dedicare dieci minuti per capire cosa significa, e significherebbe, IL VANTAGGIO DELLA FELICITA’ (di Shawn Achor– CEO di Good Think Inc. e psicologo con oltre 10 anni di ricerche ad Harvard).