ARTICOLO

14.04.2025

Play at work #8 | Quando giocare a lavoro fa paura: anatomia della Playphobia

Di Lucia Berdini

Siamo arrivati all’ottavo appuntamento della rubrica Play at Work, e non potrei essere più felice di dedicare questo spazio a un tema che mi affascina da sempre: la Playphobia, ovvero la paura – culturale, sistemica e spesso inconscia – di integrare il gioco nel lavoro.

Parlare di playphobia significa scavare a fondo nelle fondamenta stesse del nostro modo di intendere il lavoro. Significa porci domande scomode, del tipo: Perché ci sentiamo in colpa quando ridiamo in ufficio? Perché associamo la professionalità alla serietà, e la serietà alla rigidità?

Questo articolo rappresenta una tappa fondamentale del nostro percorso: per portare più gioco nel lavoro, dobbiamo prima capire cosa – e chi – ce lo impedisce. E, soprattutto, da dove nasce quella vocina interiore che ci dice che giocare è da bambini, che non è produttivo, che “non si fa”.

Per rispondere, useremo un modello potente: il Causal Layered Analysis di Sohail Inayatullah, che ci aiuterà a esplorare i diversi strati della resistenza al gioco. Scopriremo insieme che la playphobia non è solo una mancanza di tempo o di coraggio… ma una vera e propria narrazione culturale che abbiamo interiorizzato.

 

Cos’è la Playphobia

Quando parliamo di playphobia, non ci riferiamo semplicemente a chi “non ama i giochi”. Il termine indica una resistenza sistemica all’integrazione del gioco nei contesti lavorativi, radicata in secoli di convinzioni economiche, ideologiche e culturali.

Come spiega Farzad Sedghipour in Play to Perform, la playphobia è “una paura incorporata che vive all’interno dei sistemi organizzativi moderni, invisibile ma onnipresente”. Non si tratta, quindi, di una mancanza individuale, ma di un costrutto collettivo che plasma mentalità e comportamenti. In molte organizzazioni, il gioco è percepito come frivolo, non necessario, quando non addirittura come un ostacolo alla produttività.

Questa diffidenza affonda le sue radici in una narrativa dominante che associa la serietà alla professionalità e l’efficienza alla rigidità. In tale visione, il gioco viene relegato al tempo libero, separato dalla “vera” attività lavorativa. Eppure, come mostra Sedghipour, “giocare non è qualcosa che si fa dopo il lavoro, ma nel lavoro, quando creiamo connessioni, esploriamo, immaginiamo nuovi scenari.”

La playphobia non è quindi solo assenza di gioco, ma paura della sua potenza trasformativa: temiamo il gioco perché apre spazi di libertà, relazione e significato che spesso sfuggono al controllo e alle metriche tradizionali.

Riconoscerla è il primo passo per trasformare la cultura organizzativa. Non per forzare tutti a giocare, ma per restituire al gioco il suo valore umano e professionale.

 

I Quattro Strati della Resistenza al Gioco – Causal Layered Analysis

Per comprendere a fondo le radici della playphobia, può esserci d’aiuto uno strumento analitico tanto potente quanto poetico: il Causal Layered Analysis (CLA), elaborato dal futurista Sohail Inayatullah.

Il CLA ci invita a guardare oltre la superficie dei problemi, esplorandoli su quattro livelli distinti e profondi: dalla narrazione quotidiana ai sistemi, dalle visioni del mondo fino ai miti culturali che modellano il nostro immaginario. È un metodo pensato per affrontare i cambiamenti complessi e sistemici — proprio come quello di cui abbiamo bisogno per reintegrare il gioco nel lavoro.

Vediamo allora come si articola la resistenza al gioco attraverso questi quattro strati.

 

Livello Superficiale – La Liturgia del Quotidiano

Questo è il livello più visibile, quello delle opinioni diffuse, delle frasi fatte, delle reazioni istintive. Qui domina l’idea che “giocare sul lavoro è una perdita di tempo”. Chi porta leggerezza, ride o sperimenta viene spesso percepito come poco professionale, o addirittura irresponsabile.

Il linguaggio è rivelatore: “siamo qui per lavorare, non per divertirci” è una frase che tutti, almeno una volta, abbiamo sentito — o pensato.

 

Livello Strutturale – Sistemi e Politiche

A questo livello incontriamo gli strumenti concreti che mantengono viva la playphobia: organigrammi rigidi, processi standardizzati, metriche quantitative, controllo. È l’eredità del taylorismo, dove il valore si misura solo in termini di efficienza, output e performance.

Come osserva Farzad Sedghipour, “le organizzazioni continuano a operare con modelli progettati per l’industria pesante, anche quando i loro bisogni sono quelli dell’economia della creatività”. E in questi modelli, il gioco — che per sua natura sfugge alla misurazione rigida — viene escluso.

Livello della Visione del Mondo – Ideologie Economiche

Qui si trovano le convinzioni più profonde su ciò che significa “essere un lavoratore”. L’archetipo dominante è quello dell’Homo Economicus: razionale, competitivo, motivato dall’interesse personale. In questo paradigma, il lavoro è serio, lineare, produttivo. Il gioco? Un lusso, una distrazione, un dispendio inutile di risorse.

L’idea che si possa lavorare meglio giocando suona quasi eretica (anche se sempre più ricerche dimostrano il contrario).

Livello Profondo – Miti e Narrazioni Culturali

Infine, il cuore simbolico della playphobia: i miti collettivi che ci raccontiamo da secoli. Uno dei più radicati è il mito della redenzione attraverso la fatica: “chi lavora duro è una persona di valore”. All’interno di questa narrativa, il gioco appare come un tradimento morale, un gesto di leggerezza che mette a rischio il nostro senso di merito e identità.

Il gioco, invece, non nega la fatica: la trasforma. La rende sostenibile, creativa, condivisa.

 

Riconoscere questi quattro livelli ci permette non solo di decostruire la resistenza al gioco, ma anche di immaginare nuove narrazioni. Perché se vogliamo cambiare la cultura organizzativa, non basta aggiungere qualche momento di svago: dobbiamo riscrivere il modo in cui pensiamo il lavoro.

 

Le Conseguenze di una Cultura deprivata dal Gioco 

Che cosa accade quando il gioco viene sistematicamente escluso dal lavoro? La risposta è tanto semplice quanto profonda: si spegne qualcosa. Non solo nell’atmosfera aziendale, ma nel cuore stesso delle persone che lavorano.

In una cultura deprivata dal gioco, la creatività si inaridisce, la collaborazione si riduce a compiti esecutivi e il benessere si frantuma sotto il peso dell’efficienza a ogni costo. Si lavora “bene”, sì — ma raramente con gioia, e quasi mai con autenticità.


Secondo il report State of the Global Workplace 2024 di Gallup, solo il 23% dei lavoratori a livello globale si dichiara coinvolto nel proprio lavoro — un dato che, per quanto in leggero aumento rispetto agli anni precedenti, lascia ancora fuori oltre due terzi della forza lavoro mondiale. Ancora più allarmante: il 15% è attivamente disengaged, cioè apertamente infelice, disconnesso e potenzialmente dannoso per l’ambiente di lavoro.

Il costo? Enorme. Il disengagement costa all’economia globale circa 8,9 trilioni di dollari l’anno, pari al 9% del PIL mondiale.


Nel suo lavoro, Farzad Sedghipour definisce questa disconnessione disaffezione organizzativa: una forma silenziosa di resistenza interna, alimentata proprio dalla mancanza di spazi sicuri per l’espressione giocosa e creativa. Quando il gioco sparisce, con esso scompare anche la possibilità di esplorare, sbagliare senza paura, apprendere per scoperta, creare senza la pressione del giudizio immediato.

Eppure, i segnali del bisogno di gioco sono ovunque. Li vediamo nei tentativi informali dei team di alleggerire le riunioni, nei meme che circolano nelle chat aziendali, nella soddisfazione che proviamo quando possiamo “giocare seriamente” con una nuova idea.

Le organizzazioni che abbracciano la giocosità — anche solo in forma embrionale — riportano risultati interessanti. Secondo uno studio di Tews et al. (2015), ambienti di lavoro in cui è presente una cultura del divertimento consapevole mostrano migliori performance nei team, maggiore innovazione e un significativo aumento della retention del personale.

La mancanza di gioco, insomma, non è neutra: è tossica. E non lo è solo per la felicità delle persone, ma anche per la salute e la sostenibilità delle organizzazioni.

In un mondo del lavoro che si muove verso flessibilità, complessità e cambiamento continuo, non possiamo più permetterci una cultura che soffoca ciò che ci rende umani.

Verso un Nuovo Racconto – Il Gioco Come Combustibile del Lavoro Umano

Se vogliamo superare la playphobia, dobbiamo prima di tutto cambiare il racconto che ci facciamo sul lavoro. Perché finché continueremo a pensare che il gioco sia il contrario della produttività, resteremo prigionieri di un modello che ci chiede di funzionare, non di fiorire.

Farzad Sedghipour ci invita a riscrivere proprio questo racconto. Nel suo progetto Play to Perform, sottolinea che il gioco non è un premio da concedersi quando “tutto il lavoro è finito”, ma una modalità essenziale per apprendere, relazionarsi e innovare. Non è un diversivo dal fare bene — è un modo per farlo.

“Play is the future of work,” scrive Sedghipour, “because it restores the human back into the machine of modern organizations.”

Questo nuovo racconto parte dal riconoscere che la giocosità è una forma di intelligenza relazionale ed evolutiva. Quando giochiamo, esploriamo senza paura, ci apriamo al rischio, apprendiamo per scoperta, costruiamo fiducia. Non c’è creatività senza gioco, e non c’è innovazione senza esplorazione.

Il gioco, in questo senso, non sottrae valore al lavoro — lo arricchisce, lo rende più umano, più sostenibile, più significativo. Sedghipour propone di vedere il gioco come un “driver invisibile” di performance: una forza che agisce sotto la superficie, creando connessioni, senso di appartenenza e motivazione intrinseca.

Ma per attivare davvero questa forza, non basta qualche workshop di team building o un tavolo da ping pong in sala relax. Serve una trasformazione più profonda: una cultura che riconosca il gioco come forma legittima di espressione professionale.

“Play does not compete with work — it completes it,” afferma Sedghipour.
(Il gioco non compete con il lavoro, lo completa.)

Ripartire dal gioco significa re-immaginare i nostri ruoli non come ingranaggi, ma come agenti creativi di cambiamento. Significa liberare le persone dal binomio serietà=competenza per aprirle a una nuova possibilità: quella di portare se stesse al lavoro, con tutto il loro potenziale, ironia inclusa.

E se davvero vogliamo costruire organizzazioni capaci di evolvere, di attrarre talento, di generare impatto… allora forse dobbiamo smettere di domandarci se c’è tempo per giocare. E cominciare a chiederci:
Come possiamo permetterci di non farlo?

 

Fonti

Gallup, State of the Global Workplace 2024

Tews, M. J., Michel, J. W., & Bartlett, A. L. (2015). The Fundamental Role of Workplace Fun in Applicant Attraction. Journal of Leadership & Organizational Studies, 22(3), 322–333.


Lucia Berdini è founder di Playfactory e Co-founder del Manifesto del Gioco, Play Coach, World Laughter Ambassador, Gibberish and Nonsense Coach, Playfight Trainee e Genio Positivo, Chief Happiness Officer, TEDx Speaker e mamma di Noa 🙂

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