ARTICOLO
02.08.2024
Notes for happy families #2 | Io sono Francesco
Di Martino Corti

02.08.2024
Notes for happy families #2 | Io sono Francesco
Di Martino Corti
Cami ha una sorella maggiore di qualche anno, Giulia, che da piccola era una bella peperina! Cami è stata mandata nella stessa scuola dov’era stata mandata Giulia.
Immaginatevi Cami, una piccola bimba seduta al suo banco. È il primo giorno di scuola. La vedete? Si guarda intorno un po’ spaesata, come tutti. Sorride, ascolta. Un po’ è gasata, un po’ ha paura, come tutte le cose nuove.
Arriva la maestra…Si presenta e poi inizia a fare l’appello.
Immagino i pensieri di Cami:
“Chissà come sarà la mia maestra…Simpatica? Buona?”
Inizia l’appello, si parte dalla “A”, poi “B”
Cami: “Si la voce mi piace, anche la faccia mi sembra simpatica..”
Si salta alla “E”, velocemente si avvicina la “S” di Salerno, il suo cognome.
Cami: “Ci siamo quasi, tra poco tocca a me, ecco, ecco..”
Maestra: “Saler…Oh cazzo un’altra Salerno!”
Allora, lo so che la prima reazione leggendo questo racconto è quella di ridere.
In famiglia ci abbiamo riso sopra diverse volte.
Ma se vi concentrate, se chiudete gli occhi e vi immedesimate, se ci entrate un po’ di più, se arrivate lì nel cuore di quella piccola bimba e immaginate cos’abbia potuto provare in quel momento, sentirete una stretta allo stomaco.
Questa è stata l’accoglienza che il sistema scolastico “tradizionale” ha permesso di dare a Cami, e in forme diverse, ahimè, a chissà quanti altri bambini.
Io da piccolo ero un “angioletto”, il classico bambino “bravo”.
Inconsapevolmente avevo fatto un “patto” con gli adulti: io sarò quello che volete voi, però voi non mi fate più paura. E mi comprate il gelato tutte le volte che voglio
Arrivato a 14 anni, l’angioletto, il bambino biondo con i capelli a caschetto in stile “Il piccolo lord” educato, buono e obbediente è stato imbavagliato e messo in un bagagliaio da un nuovo me: ribelle, violento, superficiale, molto simpatico solo con chi volevo (spesso con chi altrimenti mi avrebbe accartocciato), antipatico e persino cattivo con tanti altri.
Bocciato in prima liceo, in terza avrei voluto mollare tutto e aprire il famoso chiringuito in Brasile (che se ci fosse davvero un chiringuito per ogni persona che ad un certo punto ha avuto quest’idea, probabilmente non ci sarebbe spazio nel mondo per città e palazzi), ho poi girato 5 scuole a calci pur di avere questa benedetta “maturità”.
Maturità?
Non avevo idea di cosa volessi, quale fosse il mio ruolo in questo mondo ma soprattutto di chi io fossi.. In che senso… “maturità”?
Poi a 20 anni ho perso papà, nonno e zia, nel giro di 6 mesi.
Diciamo che Cami ed io siamo partiti con il botto: il mio papà se n’era andato ad ottobre, il nostro incontro in discoteca che vi ho raccontato nell’episodio precedente è avvenuto a dicembre. Poi se ne sono andati nonno e zia.
E insomma, per un po’ di tempo ho “tenuto botta” grazie all’innamoramento e a questo personaggio che mi ero cucito addosso.
Poi a 22 anni ho iniziato ad avere attacchi di panico molto violenti: il mio corpo mi stava gridando che qualcosa non andasse.
Con il passare del tempo la paura, ma soprattutto la paura di avere paura, ha iniziato a limitarmi tantissimo, al punto da fare fatica ad uscire di casa.
A quei tempi ero molto arrabbiato, pensavo fosse una grande sfortuna avere attacchi di panico a 22 anni. Oggi ne sono profondamente grato.
La paura infatti mi ha imposto di cercare strade per stare bene.
Ho provato quelle veloci, mi sono servite per capire molto velocemente che servissero invece tempo e strumenti diversi.
Tempo per scoprirmi, conoscermi, accettarmi. Tempo per volermi bene.
Per poter “stare bene” bisogna anche, ma forse soprattutto, sviluppare una forte intelligenza emotiva.
L’intelligenza emotiva non è innata. Il punto è: chi ci insegna a svilupparla?
È evidente che si apra un immenso capitolo “genitori” ma, come vi avevo anticipato, in questa puntata vorrei concentrarmi su un’altra cosa: dico ma porca miseria, hanno provato ad insegnarmi matematica, italiano, scienze, storia e un sacco di altre cose, ma non come ascoltarmi, scoprirmi, conoscermi. Com’è possibile?
E non ho scritto “hanno provato” a caso, perché anche qui si apre un altro mondo: ricordo l’1% di tutto quello che ho provato a studiare con fatica e noia, ricordo invece molto bene l’ansia delle interrogazioni, l’ansia dei voti, il desiderio di alzare la mano per dire la mia o per fare una domanda quasi sempre sconfitto dalla paura di dire una cazzata, di sbagliare. Meglio tenerla giù sta mano, meglio rimanere con un dubbio che passare per stupido, sbagliare.
E ricordo nitidamente il mio sguardo speranzoso verso il cielo là fuori, mentre da seduto, inchiodato a sedia e banco, anelavo il momento in cui potermi muovere, giocare, ridere, parlare con gli altri, scoprire le cose di cui mi fregasse qualcosa. Vivere.
Mi permetto di generalizzare, sapendo perfettamente che esistano tante meravigliose eccezioni.
Partiamo da una considerazione condivisa da moltissimi: gli insegnanti sono sottopagati rispetto al ruolo, o meglio rispetto all’ enorme responsabilità che implica il loro ruolo. Come non essere d’accordo?
Per me però il vero scandalo è che il sistema permetta di ricoprire un ruolo tanto importante per il futuro dell’umanità a persone in grado di dire: “Oh cazzo, un’altra Salerno”. Che per essere insegnanti non sia necessario dimostrare di essere adulti evoluti e consapevoli e di aver acquisito strumenti e conoscenze per far fiorire bambin* e ragazz*.
Perché nonostante i dati, le evidenze scientifiche e gli strumenti forniti dalla scienza della felicità per poter costruire “organizzazioni positive”, la stragrande maggioranza delle scuole sono lontane anni luce dall’esserlo? Com’è possibile che il sistema scolastico italiano sia ancora quello di oltre 100 anni fa e che l’unica speranza che abbiano genitori e figli sia quella di trovare meravigliose eccezioni, ovvero persone tanto speciali da alleviare le carenze del sistema scolastico?
Insomma, diciamo che per me e Cami la scuola, più che fonte d’ispirazione e supporto a fiorire, è stata una rottura di palle da superare. Per questo eravamo decisi a trovare per Mirtilla qualcosa di diverso.
Il problema è che eravamo entrambi convinti che non ci fosse nulla di davvero valido, e guarda caso continuavamo a trovare conferme a validare questa nostra convinzione
E così, gira che ti rigira, dopo tante ricerche, Mirtilla è finita.. in una scuola di suore! Come come??? Una scuola di suore??
Pensieri di Cami e Mart: “Beh dai, è a 5 minuti da casa, bilingue (inglese e poi spagnolo), tanti genitori ce ne hanno parlato bene..
Ma poi scusa, all’intelligenza emotiva di Mirtilla ci pensiamo noi, no??
E poi dai, l’ago della bilancia è la sua felicità. Cioè, se esce contenta di andare a scuola è ok. O no?!”
Scopriamo dopo poco tempo che in mensa a pranzo non possano parlare. Chi parla e fa casino, in altre parole chi fa il bambino, salta l’intervallo. Scopriamo che spesso le maestre e i maestri urlino per farli stare zitti in classe. Mirtilla però ci ha detto queste cose molto serenamente, e comunque era sempre “felice di andare a scuola”.
Pensieri di Cami e Mart: “Beh tutto sommato forse è anche meglio che impari a relazionarsi con modelli educativi e regole tanto diverse. Del resto il mondo è anche questo, no? E poi comunque esce di casa felice di andare a scuola..”
Poi con il passare del tempo ha iniziato a chiedere sempre più conferme in merito ai compiti. “È giusto papà? È giusto mamma?” Noi rispondevamo di buttarsi senza paura, che al massimo avrebbe sbagliato e che grazie agli errori avrebbe imparato…Ma non era molto convinta, anzi. Abbiamo notato anche che stesse imparando a studiare a memoria, senza capire e rielaborare… Il modo migliore per non ricordarsi nulla… e per rompersi le palle!
E infatti piano piano, dal grande entusiasmo iniziale di fare compiti e scoprire cose nuove, ha iniziato qua e là a dire che non avesse voglia, a sbuffare.
E allora quando potevo le proponevo di studiare giocando: lei studiava le due o tre paginette, poi entravamo nel nostro teatro immaginario. Io ero il regista e chiedevo all’attrice (lei) di interpretare la parte: “Prova ad usare parole diverse dal libro e…fammela tristissima” ed ecco che Mirti iniziava a raccontarmi l’homo sapiens singhiozzando, distrutta dal dolore. E poi giù a ridere insieme!!
“Benissimo, ma vorrei provare delle alternative. Vai avanti alla parte dei dinosauri, ma adesso fammela arrabbiatissima” ed ecco t-rex e triceratopi prendere forma da urla, pugni e calci all’aria e ai cuscini.
E ogni volta che ridevamo insieme abbracciandoci dopo aver giocato (e studiato molto bene) Mirti mi diceva “papà ma studiare con te è bellissimo!”. Ed io la guardavo negli occhi sorridendo, ma dentro di me sentivo qualcosa scricchiolare. Sentivo sempre più forte quella vocina che, nonostante tutto quello che Cami ed io ci stessimo raccontando per farci andare bene questa cosa, non aveva mai smesso di parlarmi: “Ma cosa stiamo facendo? Perché abbiamo accettato questo compromesso nonostante quello che abbiamo provato sulla nostra pelle, nonostante la fatica che abbiamo dovuto fare, nonostante le energie che abbiamo dovuto sprecare per sopportare la scuola invece di indirizzarle nella giusta direzione?”
Mirti stava finendo la seconda elementare quando finalmente sono riuscito ad iscrivermi al corso per diventare CHO (Chief Happiness Officer).
Per prepararsi al corso si legge un libro meraviglioso: “La scienza delle organizzazioni positive” (Daniela Di Ciaccio e Veruscka Gennari). Come per magia ha iniziato ad aprirsi un “universo parallelo” fatto di persone e organizzazioni che stanno cambiando le cose, un passo alla volta.
E guarda un po’, ho scoperto che questa gentile trasformazione stia coinvolgendo anche le scuole.
Ashoka, la più grande rete internazionale di imprenditori sociali innovativi, ha lanciato anche in Italia il programma “Scuole Changemakers” (scorri sul sito e scopri le 11 scuole Changemaker in Italia!)
Nel 2016 ha presentato la prima mappa delle scuole innovative del mondo (più di 30 paesi), con oltre 300 menzioni.
Obiettivo della mappatura non era quello di scovare singole eccezioni, ma intere scuole in cui alunni, genitori, insegnanti e dirigenza condividessero un progetto di innovazione delle pratiche educative, mettendo come priorità quella di coltivare empatia, lavoro di gruppo, leadership e creatività.
Silvia Pagani è una psicoterapeuta che da più di 30 anni lavora con i giovani. Si è resa conto che i sintomi e i disagi raccontati dai ragazzi incontrati nel corso degli anni si assomigliassero molto. Il pensiero di Silvia è stato quindi che gli atteggiamenti, i comportamenti e i sintomi non fossero altro che “una risposta sana ad una proposta malata”.
E così è nata Artademia, dove bambin* e ragazz* passano la stragrande maggioranza del tempo all’aperto. Dove non si forniscono mai risposte ma si creano situazioni intriganti che facciano nascere le domande.
Per diventare insegnanti artademici bisogna avere una profonda passione per ciò che si insegna, perché non basta “sapere” ma bisogna “saper affascinare”.
Continua Silvia: “con noi lavorano solamente persone che hanno chiaro che solo chi sta bene ottiene davvero successo nella vita. E per successo intendiamo quello vero, cioè la sensazione di essere felici e parte di un tutto”.
5 minuti di applausi.
Altre situazioni interessanti, quantomeno da approfondire, sono Senza Zaino e Scuola nel bosco. Ce ne sono tante altre e ce ne saranno sempre di più.
La cosa importante in questo capitolo non è cos’abbiamo deciso di fare Cami, Mirtilla ed io, ma che anche tu che stai leggendo e senti una vocina possa scoprire, approfondire e condividere le meravigliose alternative che già ci sono.
In un mondo in cui i dati ci dicono che i giovani non siano mai stati così infelici, in cui possiamo solo immaginare quali lavori ci saranno da qui a pochi anni (e quindi non possiamo sapere quali competenze serviranno), prendo ancora in prestito le parole di Dani e Veru per condividere la consapevolezza che ha dato il coraggio a me e Cami per fare un grande passo: “il punto non è cosa debbano imparare i nostri giovani per stare al mondo, ma come debbano imparare a stare al mondo”
Per salutarci con speranza, ma anche con la consapevolezza di quanto il cambiamento dipenda da ognuno di noi, condivido le parole mozzafiato di Alessandro D’Avenia, meravigliosa eccezione che insegna italiano, latino e greco in un liceo di Milano e che grazie al contributo dei suoi alunni ha scritto il suo primo libro: “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, diventato bestseller tradotto in 19 lingue:
“Sogno una scuola di rapimenti, una scuola come bottega di vocazioni da coltivare, mettere alla prova e riparare. Una scuola in cui l’insegnante sia il postino che porta le lettere di altri all’indirizzo di ogni studente. La scuola che ognuno di noi ricorda in quel professore speciale, che ci ha guardato come qualcuno e non come qualcosa, cominciando così a farci fiorire. Viviamo in un tempo in cui raccontare qualcosa di positivo desta sospetto. Credo che dovremmo abbassare le nostre difese e cercare ciò che in mezzo all’inferno non è inferno, farlo durare e dargli spazio.. Questo però richiede coraggio, perché accogliere qualcosa di bello, vero, buono, cioè riconoscerlo come bello, vero, buono, significa mettersi in gioco personalmente per difendere e ampliare quel bello, vero, buono. Il cinismo è scorciatoia che ripara dal coinvolgimento personale e dal conseguente impegno, e a volte sembra un rifugio comodo, ma alla lunga inaridisce…”
🔍Spoiler per la prossima puntata Children see. Children do
Multipotentialite, Artista, Happiness Coach, Intermediario di Evoluzioni, certificato Chief Happiness Officer della IX edizione, Martino Corti ha deciso di applicare strumenti, consapevolezze e pilastri della scienza della felicità nell’organizzazione per lui più importante del mondo: la famiglia!