ARTICOLO

28.03.2024

Generazioni, lavoro e futuro | Esplorazioni tra le parole | Resisti, Cuore

Di Veruscka Gennari

“Le generazioni si pensano ma non si parlano” dice il mio amico Matteo Ficara, io aggiungo: “e per questo non si riconoscono!”

Questa riflessione è maturata dopo aver svoltato l’angolo disegnato dall’ultima pagina di un libro che ho “divorato” con cura: Resisti, Cuore di Alessandro D’Avenia. È un libro meraviglioso, intenso, magnetico, un capolavoro dell’anima possibile da realizzare solo quando si sceglie di farsi attraversare dallo spirito dei tempi per dar voce al proprio destino. 

Resisti, Cuore parla del viaggio di Ulisse, il viaggio di un uomo che si è perduto e si ritrova grazie a chi lo ri-conosce e lo sa amare.

In questo Poema del riconoscimento, ho sentito urlare riflessioni sul lavoro, sul futuro e soprattutto sulle forze agite dalle generazioni. È accaduto così che ho scelto di parlarvi dei temi che hanno animato questo trimestre editoriale, attraverso i pensieri che mano a mano accumulavo andando avanti nella lettura. Sono miei appunti che si concludono con domande aperte, che custodisco nel cuore e con cui intendo continuare a confrontarmi. Riporto qui anche citazioni e frasi dell’autore (sempre in corsivo come già ho iniziato a fare sopra) non solo perché mi sono di ispirazione, ma anche perché sono “al dente” ovvero cesellate al punto giusto, tanto da farmi pensare: non si poteva dire meglio!

 

Il filo teso tra lavoro, futuro e generazioni, un intreccio indissolubile nella trama della vita.

Dov’è il lavoro in Resisti, Cuore

Ovunque se lo consideriamo come qualcosa che facciamo ogni giorno per attraversare la vita da protagonisti ovvero da “coloro che combattono in prima fila”. Vi chiedo, dunque, di aprire le porte degli uffici, dei negozi, delle scuole o degli ospedali, di mettere le ali ai pc e ai telefoni e considerare questi solo dei dettagli, figli del nostro tempo. In Resisti, Cuore si parla di lavoro nella misura in cui gli uomini e le donne operano scelte, vivono fallimenti, provano dolori, dedicano impegno, rispondono al dovere, esprimono e realizzano desideri, ingoiano delusioni. Si parla di fatiche perché sono proprio le fatiche a custodire la radice etimologica della parola lavoro. Il lavoro è la cifra dell’umano e ogni impresa che compiamo è una fatica, un lavoro, un viaggio che ci porta a scegliere chi vogliamo diventare. Il fatto che questa ricerca avvenga per mare, come per Odisseo, o dietro una scrivania, tra i tavoli di un ristorante, davanti ad uno schermo, tra i banchi di una scuola o in sella ad un cavallo del “pony express” poco importa. Lavorare, ce lo insegna la storia, è il modo in cui tutti noi ci mettiamo nella condizione di impegnare le nostre energie, è lo strumento con cui concorriamo ad essere destino e destinazione.

Dunque sì, si parla di lavoro eccome e la ricompensa non è il denaro che, nel nostro modo ordinario di intendere il lavorare, consideriamo spesso l’unico tornaconto, ma è la possibilità di calcare le scene di un teatro, la vita, da protagonisti!

Domanda da cui mi lascerò attraversare: Destino contiene la parola stare che in latino indicava l’essere saldi, e tu Veru a cosa o a chi ti stai saldamente abbracciando? A te?

Dov’è il futuro in Resisti, Cuore

In Resisti, Cuore è incastonato un capitolo meraviglioso intitolato Nostalgia di futuro. La nostalgia di futuro custodisce il seme del nostro destino. Ho nostalgia di qualcosa che amo e verso cui desidero tornare e per la quale scelgo di vivere e respirare.

La nostalgia del futuro non è il dolore di una perdita, ma l’inquietudine del “non ancora”, che mi induce a non accontentarmi delle cose come stanno, come il passato me le ha consegnate. La nostalgia del futuro è speranza di nascere: sono sicuro che domani vorrò amare meglio di oggi per essere all’altezza del mio destino, che vuole salvarmi dall’oblio di me stesso. La nostalgia del futuro è la chiamata a non accontentarmi: mi fa vivere per inquietudine e non per abitudine.

Il futuro accadrà dopo, ma accade anche ora nel presente… dipende da quello che facciamo oggi per il domani e, se lo affianchiamo al lavoro, queste due tessere si uniscono saldamente per dirci che il nostro lavoro di oggi, lo stare con fatica nel mondo, determinerà il futuro. Se “avremo lavorato”, se “avremo provato” nostalgia di quel futuro, se “saremo stati capaci “ di abitare nel “futuro anteriore”, un tempo che esprime fatti proiettati nel dopo ma avvenuti prima di altri, allora avremo anticipato il nostro destino: il nostro futuro preferibile!

Il senso di una narrazione avviene nel futuro, è solo dopo che sapremo come andrà a finire una storia, se “saremo stati capaci” di realizzare un futuro verso cui avere nostalgia. 

Domanda da cui mi lascerò attraversare: Se mi chiedessero di raccontare la mia vita da un punto a mia scelta, da quale partirei? Credo che sceglierei il momento in cui ho visto Itaca nel mio cuore, percependola all’inizio solo come nostalgia di futuro, il nome che io do al desiderio. E tu Veru quale sceglieresti?

Dove sono le generazioni in Resisti, Cuore

Come sempre nell’Odissea della vita si incontrano compagni che hanno intrapreso il viaggio prima o dopo di noi ed è bene ricordarsi che si tratta solo di questo: di un prima e di un dopo che non definisce la qualità ma solo il quando. 

Se volessimo leggere le relazioni e i dialoghi tra alcuni dei protagonisti dell’Odissea attraverso le lenti delle generazioni vedremo: Ulisse (boomer) dialogare con suo figlio Telemaco (generazione Z) e Telemaco dialogare con il suo coetaneo Pisistrato per poi confrontarsi con Atena (founder). Vedremo anche Alessandro, l’autore, (generazione X) dialogare con i suoi studenti (generazione Z) e poi anche con i suoi lettori (5 diverse generazioni possibili). 

Vedremo Ulisse (boomer) dialogare con la sua nutrice Euriclea, sua madre Tiresia e il fedele Eumeo (tutti builders), ed infine lo vedremo parlare con i coetanei Mentore e Penelope, e poi con una sfilza di founders da Atena a Polifemo passando per Circe e Calipso.

Ogni generazione sta vivendo (o ha vissuto) la fatica di realizzare il proprio destino mossa dalla nostalgia di far ritorno a sé, desiderando il proprio futuro. Tutto questo non sarebbe possibile se non attraverso un parlarsi e un riconoscersi. Qui c’è il seme del futuro: ciascuno di loro (ciascuno di noi) è necessariamente parte dell’Odissea di qualcun altro, sta a noi scegliere che ruolo avere. Possiamo essere dei compagni di viaggio come Pisistrato (figlio di Nestore) lo è per Telemaco quando lo accompagna nell’impresa di raggiungere di notte a cavallo Sparta; possiamo essere mentori come Mentore lo è per Ulisse; possiamo essere antagonisti come Antinoo ed Eurimaco (due dei proci usurpatori) lo sono per Ulisse. Possiamo scegliere chi vogliamo essere, ma non se vogliamo essere. Su questo tornerò anche più avanti.

Le persone non esistono per soddisfare le nostre aspettative ma per realizzare sé stessi, sono soggetti di destino. 

Domanda da cui mi lascerò attraversare: tu, cara Veru, come madre, compagna, collega, amica, figlia, stai imparando l’arte di aspettare che l’altro sia come il suo destino comanda, tu sai aspettarti?

Ri-conoscersi per ri-conoscere. 

Le generazioni si pensano ma non si parlano e dunque non si riconoscono. In Resisti, Cuore sono inciampata nella parola riconoscersi ben 177 volte. Il prefisso “ri” indica iterazione quindi qualcosa che si ripete nel tempo. Ri-conoscersi vuol dire conoscersi nuovamente, vuol dire che qualcosa, tra un prima e un dopo, è accaduto e merita un nuovo incontro per essere nuovamente visto. 

Ci si incontra e riconosce nel dialogo, una parola meravigliosa: una parola che viaggia. Dia-logos: logos = parola; dia = viaggio attraverso.

Scelgo quindi di raccontarvi tre dei diversi e possibili spazi in cui possiamo viaggiare dialogando e riconoscerci oltre le generazioni. 

Il primo spazio si chiama consapevolezza. Per poter essere riconosciuto da qualcun altro devo prima aver imparato a riconoscere me stesso, e già questa è un’Odissea, poiché spesso naufraghiamo proprio nel tentativo di voler essere riconosciuti dagli altri prima di aver imparato a riconoscerci. Inoltre, per poter essere riconosciuti, c’è bisogno che anche l’altro abbia imparato a non naufragare perché: solo chi ha occhi per riconoscerci ci restituisce a noi stessi.  Polifemo e Ulisse sono fratelli che non si riconoscono perché ciascuno si ostina ad essere quello che non è. Ulisse persiste nel presentarsi con la sua identità bellica: “Distruttore di città” e così facendo resta un “nessuno” che non può essere visto dall’altro. La stessa cosa accade quando al lavoro il “senior” rivendica il suo diritto di essere riconosciuto dal “giovane” aggrappandosi alla sua tanta esperienza, al “si è sempre fatto così, io ne ho viste tante”. In quello spazio non ci sarà un ri-conoscimento ma una separazione. Lo spazio da costruire si nutre di autenticità e consapevolezza e passa dai bisogni e dal desiderio di volerli attraversare: li conosciamo? Ci conosciamo? Tutta questa esperienza ci ha fatto da maestra? Quella con noi stessi è la prima relazione che abbiamo e da quella dipendono tutte le altre; ne abbiamo fatto o ne stiamo facendo tesoro?

Il secondo spazio si chiama sofferenza; chi sa riconoscere le cicatrici di un altro lo riconosce in ciò che lo rende più autentico ovvero la sua fragilità.

Euriclea, l’anziana nutrice di Ulisse, lo riconosce attraverso la ferita dell’infanzia, così come accade al padre di Ulisse: Laerte; la giovanissima Nausicaa è l’unica a riconoscere Ulisse e il suo dolore perché anche lei sta provando lo stesso dolore; Ulisse, entrato nel regno dei morti, riconosce sua madre Tiresia quando dice di essere morta di dolore e nostalgia per la sua assenza.

L’uomo si riconosce in base a quanto ha sofferto e alle sue cicatrici! Quanto sarebbe potente se le 5 generazioni che oggi coesistono nelle nostre organizzazioni si riconoscessero in questo spazio? Posso guardare la paura e l’ansia di un giovane di fronte al suo primo lavoro o l’ostinazione di un anziano imprenditore nel lasciar andare la propria azienda e riconoscere, nel primo, le cicatrici lasciate da una un insegnante arido o da un genitore carico di aspettative, e posso riconoscere, nel secondo, le ferite lasciate dalle rinunce e dai sacrifici, dalla paura di diventare un “nessuno”. Ci vorrebbero più spazi per narrare le proprie odissee, sono certa che abbatteremmo molte più barriere e in molto meno tempo, perché riusciremmo a parlare al cuore.

Il terzo spazio si chiama, appunto, cuore. Il cuore è il motore che dà il nome al libro. 

Resisti, Cuore ovvero torna ad esistere in quello spazio che rappresenta la sintesi dell’intero poema: un’epica del cuore. La parola cuore compare per ben 297 volte ed è il luogo in cui ciascuno di noi può ri-conoscersi e grazie al quale riconoscere l’altro: è la nostra Itaca. 

Ho imparato a “riconoscere nel cuore” a scuola. Viene un momento in cui “riconosco” i miei studenti “nel cuore” perché dietro i loro vestiti, le loro acconciature, e tutte le maschere che indossano per essere all’altezza della vita, sento come mie le loro ferite, le loro paure, i loro respiri e desideri ancora troppo corti, i loro destini ancora abbozzati, la loro incerta originalità. E che cosa è riconoscere nel cuore se non sentire come proprio il destino di un altro? Questo sguardo mi libera da ogni aspettativa, delusione, preferenza e mi porta su un territorio diverso, quello dell’ospitalità che l’Odissea mi ha mostrato e il Vangelo dimostrato, in cui la relazione è un impegno a far essere l’altro, a farlo crescere, a farlo esistere di più, a farlo venire alla luce, ad aiutarlo a fare verità, a incarnarsi.

Riconoscere nel cuore è l’impresa più difficile; vuol dire saper far ritorno al momento in cui tutto è iniziato (al nostro battito) per ritrovare lì la nostalgia del nostro futuro. Non ci sono, dunque sfide tra generazioni nello spazio della consapevolezza, della sofferenza e nel cuore, ma ci sono riconoscimenti! Ad unirci ci sono i bisogni che appartengono a tutti nella misura in cui ciascuno sta cercando di realizzare il proprio destino. Prima di pensarci noi ci sentiamo!

Domanda da cui mi lascerò attraversare: l’autore si chiede “come farò ad essere maturo il giorno della mia morte?” E tu Veru come farai? Cosa stai facendo ora per creare lo spazio nel tuo cuore per riconoscerti e riconoscere l’altro?

La questione di un ragazzo che cresce

Scrivevo poco sopra che ciascuno di noi può scegliere chi essere per l’altro: se un protagonista e compagno di vita, un mentore o un antagonista. La consapevolezza con cui giochiamo questo ruolo ci indica quanto stiamo realizzando il nostro destino e quanto siamo capaci di creare spazi in cui riconoscere l’altro. Pensando alle generazioni penso prima di tutto ai giovani, le altre arrivano dopo, la “mia” per ultima e la questione di un ragazzo che cresce la sento addosso come il peso più grande. È un peso che mi tiene attaccata alla realtà, che ogni tanto mi blocca, facendomi sentire inutile. Ma è anche un peso educante che mi restituisce la misura del mio amore per la vita, grazie al quale so che appartengo a questo mondo e che in questo mondo ho voglia di creare spazi e ponti per unire, riconoscermi e riconoscere, per nascere. Già, perché Alessandro, l’autore, mi ricorda che l’altro polo della morte non è la vita ma la nascita, che siamo esseri nascenti e non solo viventi e che un ragazzo che vede un adulto impegnato a nascere decide che ne vale la pena.

Sono sempre rimasto molto colpito dalla profondità che può avere un adolescente, una adolescente in particolare. Magari sembra comportarsi con superficialità ma poi, pochi istanti dopo, riesce a definire la realtà con incredibile precisione, perché ha un istinto verso ciò che è bello, vero, buono, che va al di là delle sue risorse culturali, della consapevolezza raggiunta e che soprattutto è ancora immune ai compromessi adulti, o meglio adulterati. L’anima ha delle fughe in avanti sorprendenti, soprattutto nell’adolescenza. Ecco cosa sarebbe auspicabile conservare di quell’età: l’istinto della verità, della bellezza, della giustizia, che spesso poi la fatica della vita e i fallimenti si incaricano di offuscare. Per questo amo insegnare, perché sono costretto tutti i giorni a non perdere istinto di destino, ispirazione e desiderio che agiscono in purezza, nel nascere continuo che è la giovinezza.

La questione di un ragazzo che cresce appartiene a tutti, chi spegne l’entusiasmo altrui lo fa o per averne il controllo o perché non riesce a tollerare che qualcuno si cimenti in ciò che lui non ha avuto il coraggio di fare, ossia diventare protagonista della propria vita, e invece di mettere in discussione se stesso cerca di scoraggiare l’altro. 

Ecco questo no! La questione di un ragazzo che cresce è una questione pubblica, politica, e quando una comunità lo ignora, quella comunità non esiste, quando una comunità non è un luogo per nascere, quella comunità si sta estinguendo

Che ruolo e che spazio vogliamo occupare? Io desidero cambiare generazione e fondarne una nuova, vorrei appartenere alla generazione dei classici, si, voglio essere una classica o almeno aspirare ad esserlo! Già perché Resisti, Cuore mi ha sbloccato un ricordo, si tratta di una cosa che avevo appreso all’università, preparavo l’esame di storia della filosofia e lessi che la parola “classico” nasceva da un ruolo. I Classici erano militari romani, soldati di lungo corso, coloro che erano sopravvissuti a tante battaglie e ne portavano le cicatrici. Costoro avevano il compito di insegnare ai nuovi arrivati come si combatte. E allora i “classici della letteratura” sono tali perché hanno saputo essere talmente mortali da essere sopravvissuti alla battaglia contro il tempo, e non banalmente perché i loro nomi sopravvivono, ma perché ciò che hanno scritto per noi ci aiuta a sostenere la nostra odissea quotidiana.

Ecco perché vorrei che tra le generazioni se ne aggiungesse una, quella dei classici: sono i “perennials” ovvero non si distinguono per l’arco temporale in cui sono venuti alla luce, ma per la postura che hanno nell’attraversare la vita, sono la generazione delle generazioni, quella di coloro che diventano destino perenne come quelle piante che sono facili da coltivare, perché hanno saputo nascere prima di tutto, puntando radici salde nel loro cuore. Sono coloro che vivono a lungo e con poche cure perché sanno prendere quello che serve senza eccessi e senza sprechi ma soprattutto sono lì a ricordarci che possiamo sopravvivere. Sono quelle che sanno far accadere cose: provoca destini solo chi ha destino!

Per l’autore il futuro non è un concetto, ma una concezione; vuol dire concepire, portare alla luce, far nascere. È qualcosa che si concepisce perché deve realizzarsi. Concepire qualcuno o qualcosa vuol dire non solo prendersene cura, ma sapere che arriverà un momento in cui dovrai lasciarlo andare, spingerlo fuori nella vita e darlo alla luce. È un atto d’amore e di rinuncia che comporta dolore, il tuo e suo, richiede equilibrio da generare tra la spinta a proteggere e quella a lasciare che sia.
Domanda da cui mi lascerò attraversare: da insegnante, Alessandro D’Avenia lo vede manifestarsi nella relazione tra lui e i suoi alunni e tu, Veru, dove? 

Riconosciamoci dunque nelle generazioni come insiemi aperti e spazi in cui allenarsi a resistere nel cuore, ad intercettare i bisogni e la sofferenza dell’altro, a nascere nella consapevolezza. Soprattutto scegliamo ogni giorno con maestria e CURAggio che ruolo desideriamo avere nello spazio del noi. 

Siamo mari che mescolano le loro acque per attraversare e realizzare destini e futuri.

Conclusioni

Concludo qui queste pagine scritte oggi 26 marzo 2024 in un Mondo in cui c’è tanto, troppo bisogno di ritrovarci nel cuore. In un mondo in cui è necessario dirci Resisti, Cuore!

Le frasi in corsivo riportano le citazioni dirette dell’autore a cui sarò infinitamente riconoscente per aver avuto il CURAggio di realizzare il proprio destino anche attraverso la scrittura.

 

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